Da Barcellona, Beto Borregan è stato uno dei primi a commentare: «Sei stato il miglior assist-man e uno dei più forti che ho visto all’opera in vita mia. Sono stato fortunato a giocarci insieme». Ora che Enrico Mariotti ha deciso di chiudere il suo immenso e luccicante parco giochi, partono i ricordi anche di chi si è divertito a frequentare quel fantastico luna park di emozioni. Certo, se a dire certe cose è una delle stelle indiscusse blaugrana, allontanato troppo facilmente dalla piste, il discorso assume contorni eccezionali. Se qualcuno se ne fosse scordato, è un autentico talento planetario quello che a fine anno spegnerà le insegne della sua carriera da giocatore.
«Non ho mai pensato ad altro: l’hockey per me è stata la sola cosa. Ho sempre e solo guardato mazze e palline, il calcio non mi interessava. Da piccolo, nelle partite a pallone tra ragazzini, mi mettevano in porta. A 3-4 anni, quando iniziai a pattinare e a muovere i primi passi nell’hockey, capii subito che quella era la mia strada».
Suo babbo Marco a quei tempi stava concludendo la sua carriera da difensore del Circolo Pattinatori Grosseto per infilarsi in quella di allenatore. Suo fratello Massimo si divideva tra calcio e hockey. Lui dal primo giorno ebbe tutto chiaro. Una carrierona da predestinato. Subito un vincente, l’uomo squadra, il castigamatti a livello di settore giovanile. Sapevi che ci giocavi contro e che le proporzioni sarebbero state ingiuste, quasi da 5 contro 6 perché lui, fin da quei tempi, valeva il doppio.
«Senza babbo Marco e mamma Gina non avrei fatto niente in vita mia. Loro sono stati i cardini della mia esistenza, anche da giocatore».
È dovuto diventare grande in fretta Enricone rincorrendo il suo sogno di giocatore, la sua voglia di arrivare un giorno a giocare come Raul Martinazzo, il suo idolo d’infanzia, l’argentino, fratello di Daniel, che fece letteralmente innamorare i grossetani ed esplodere la mitica pista di via Manetti.
Aveva 17 anni e partì per Reggio Emilia, la sua rampa di lancio per la Serie A, non prima di aver trascinato il Grosseto alla sua prima e unica finale di Coppa Italia della storia dell’hockey. Il punto più alto mai raggiunto dal glorioso sodalizio biancorosso assieme al terzo posto in campionato a metà degli anni 70. Devastante e potente. Visione di gioco e lanci millimetrici. Botta precisa e a volte terrificante. Non gli bastarono tutte le sue doti quella sera sulla pista di Viareggio dove il suo Grosseto affrontava il Novara, mammasantissima dell’Italia a rotelle. La coccarda tricolore se l’attaccarono al petto i novaresi, anche per mano di suo fratello Massimo che quella notte non seppe se ridere o piangere visto l’esito della partita e la sua illimitata fede biancorossa.
La sua prima stagione in Serie A fu subito sopra le righe. Quasi 50 gol al debutto nella massima serie. Numeri incredibili se rapportati al suo ruolo e alla sua giovane età. «Non smetterò mai di ringraziare la famiglia di Pier Aguzzoli, quell’anno a Reggio Emilia diventai per loro come un figlio».
Dopo un anno era già diventato un soggetto di culto del mercato. Passò al Vercelli assieme al fratello Massimo e arrivò la Coppa Cers. La Uefa dell’hockey andò anche a conquistarsela anche a Monza assieme alla Coppa Italia, in quel Salumi Beretta che arrivò solo a carezzare il sogno scudetto dopo i fantastici anni 60, gli incroci stellari con la Triestina e la finale di Coppa dei Campioni persa contro il Reus.
Il suo approdo a Seregno segnò anche l’arrivo allo scudetto e la finale in Coppa dei Campioni. Tutto questo avveniva assieme ai trionfi ottenuti con la Nazionale di Massari, fino a toccare il cielo con un dito con il passaggio a un amen dalla fine per il gol-partita nella bolgia inferocita dei diecimila del Riazor. Un assist perfetto per la stecca di Pino Marzella, «ed avevo appena messo i pattini in pista», racconterà anni dopo a quei pochi che ancora non lo sapevano, evocando la magica notte che regalò alla nostra nazione il terzo titolo iridato della sua storia, arpionato a La Coruna da una generazioni di autentici fenomeni.
Tre scudetti e quattro Coppa Italia: fu questo il suo bottino di caccia in quel di Novara, idolo acclamato sotto la cupola di San Gaudenzio, da sempre scala dell’hockey. È qui che dopo averle tenute a distanza (e avrebbe preso anche un bel mucchio di soldi) cedette alle lusinghe del Barcellona. Divenne il primo sportivo italiano a vestire la maglia del Barça, lasciando tracce indelebili in Catalunya. Due Liga, la Coppa dei Campioni (primo italiano e per lungo tempo unico a vincerla), la Coppa Intercontinentale. Provate ad andare in giro per Barcellona con Enrico Mariotti. Dal Montjuic alla ramblas guardate quanti ancora lo fermano per strada, gli chiedono una foto o un autografo. «La Spagna è un mondo a se, l’hockey da quelle parti è rigoroso sin dai settori giovanili». Un’istituzione Enricone, che prima di tornare in Italia vestì anche la maglia del Reus. Qualche anno più tardi quando tornò a giocarci contro con la maglia del Bassano gli urlarono «Mariotti, Mariotti vaffanculo», soprattutto perché lo temevano terribilmente.
Chiusa la prima parentesi catalana, Enrico tornò in Italia e col Prato assieme alle magie dei Bertolucci, la sapienza hockeystica del fratello Massimo, l’esplosiva concretezza di Bresciani riuscì a portare lo scudetto anche dalle parti di Maliseti, il primo tricolore colto da una squadra toscana.
«Follonica è sempre stata la mia prima rivale». Grossetano fiero, sempre superlativo se doveva affrontare una maglia azzurra, Enrico tornò nella sua Maremma nel favoloso Consorzio Etruria che ha inanellato titoli a ripetizione, arpionando la prima Champions e la prima Intercontinentale di una squadra italiana.
In mezzo ai trionfi, al rigore che estromise il suo ex Barca dalla corsa per la Champions, alla paura per un cuore divenuto pazzo, Mariotti si trovò shekerato da un’orgia di emozioni.
«Mi piacerebbe riassumere in poche righe di questo grandissimo del mondo dell'hockey ,ma è davvero complicato. Da avversario l'ho vissuto e sofferto. Soprattutto l'ho rispettato». Il messaggio su facebook è firmato da Facundo Salinas, fenomenale argentino che in Italia si esaltò con Forte dei Marmi e Thiene, campione del mondo a Recife nel 1995.
«Sono a Barberino, aspetto il presidente Merlo e firmo per il Bassano», disse un giorno di inizio estate del 2008. «Durò poco, non mi presi mai con Vanzo, me ne andai prima del tempo ma lo scudetto che vinsero i giallorossi lo sento anche un po’ mio». Rotto i ponti con l’Italia, illuso da un mercato del Follonica che rimase solo lettera morta, Enricone trovò riparo in Spagna, tra San Hipolit de Voltregà e Villafranca. All’inizio del 2010 ritornò in Italia, giocatore-allenatore del Castiglione, pronto a ripartire dalla A2, di scena su piste che non aveva mai visto prima.
«Come faccio a dire di no? Questa è la mia ultima occasione», si sfogava nel gennaio del 2011. Dopo pochi mesi lasciava l’amata Castiglione, il posto dei divertimenti, il buen ritiro estivo tra isole e gommone, per andare a Viareggio. A quarant’anni passati tornava a essere protagonista proprio su quel parquet dove col Follonica era stato in molte occasioni un gigante. «Non avrei mai pensato di rivincere uno scudetto» si confessò pochi giorni dopo la festa tricolore spazzolando un piatto immenso di tortelli spinaci e ricotta. Aveva messo un’altra firma importante, un pezzo di quel tricolore che fece impazzire Viareggio apparteneva anche a lui, capace di segnare anche nella sfida decisiva contro il Valdagno. Nel frattempo l’ultima chiamata in una Nazionale che per molti anni lo aveva colpevolmente dimenticato riaccese completamente la sua stella al Cantoni di San Juan dove qualche anno prima, sempre con la maglia dell’Italia, per giocare aveva dovuto fare il portiere. Sarà l’unico giocatore italiano ad aver disputato in carriera ben tre Mondiali nella capitale dell’hockey argentino.
L’arrivo a Forte dei Marmi è stata la chiusura del cerchio. «La piazza mi piace, il posto pure. Sono affezionato a questa gente, speriamo di fare bene».
«Leggi qua e non piangere»: pochi giorni fa un sms avverte delle sue intenzioni. Poi la notizia diventa di dominio pubblico su social network e siti cult.
«La vita inizia quando un bambino smette di giocare», lo avverte in un commento Lucio Marrone, uno che ha già percorso questa strada. Guastiamocelo ancora per un po’ quindi questo Enrico Mariotti, ora che il suo show si sta per chiudere.